giovedì 24 aprile 2008

Il filo spinato che ci circonda
Dai campi vietnamiti alla forma-campo nelle democrazie della sorveglianza di oggi. Dall'idealtipo di Guantanamo ai Cpt, l'utopia della sicurezza nella politica interna del mondo globale
Alessandro Dal Lago - Il Manifesto 29.03.2008

Filo spinato, prigionieri imbavagliati. Negli anni Sessanta, queste immagini sembravano inevitabilmente discendere da un repertorio bellico, e quindi dall'eredità del secondo conflitto mondiale e della guerra fredda: campi di prigionia, lager, l'arcipelago Gulag, il muro di Berlino. E dall'esistenza dello spazio carcerario. Si manifestava una volta per la pace in Vietnam e una volta in appoggio ai carcerati. Dalle bocche di lupo di San Vittore spuntavano le mani dei prigionieri che agitavano fazzoletti o lanciavano messaggi. Si attaccava l'idea stessa di ospedale psichiatrico: dietro le sbarre dei lager civili si intravedevano le facce di gente internata da cinquant'anni. Liberare tutti.
Quarant'anni dopo, il carcerario è inattaccabile perché ubiquo: lungi dall'essere un residuo della violenza bellica, di dittature travolte dalla storia o di un'anacronistica ferocia di stato, sembra piuttosto la condizione minima perché esista qualcosa come il politico, perché si produca un'identità collettiva, perché gli stati esistano. I campi come normalità dinamica del politico, non come eccezione. Più il potere si moltiplica, si diffonde, si insinua tra noi, più la forma campo si intreccia alla cosiddetta libertà. Se esco di casa e passeggio per il mio quartiere, una zona tranquilla quanto ogni altra, sono inquadrato da decine di videocamere, mi imbatto ogni dieci minuti in un pattugliane di carabinieri, assisto a qualche effetto della tolleranza zero. Dov'è finito quel gruppo di stranieri con le lattine di birra che vedevo tutti i giorni in una piazzetta? Basta un'ordinanza municipale, il proclama di un sindaco o di un prefetto, e quella gente sparisce in qualche ambito di segregazione, in una questura, in un Cpt, in una discarica sorvegliata dalla polizia, mentre fuori le cittadinanze strepitano. È per la mia sicurezza, mi si dice. Intorno a me, nel cuore del pacifico e civile occidente, si srotola il filo spinato.
Il G8 di Genova ha perfettamente riassunto, in pochi chilometri quadrati, e in un crescendo che ha trovato il suo acme il 20 e 21 luglio 2001, tutte le forme che può assumere l'immanenza della forma campo. Batterie anti-missile intorno all'aeroporto recintato. Zona rossa: un intero centro storico circondato da grate, agenti segreti e poliziotti in divisa e in borghese mescolati ai passanti, cecchini sui tetti (flash: il tabaccaio che ha bottega nella zona rossa mi passa le sigarette attraverso le grate; io abito a dieci metri di distanza, ma nella zona gialla). Bolzaneto, la nostra Abu Ghraib. 20 e 21 luglio, scene di caccia all'uomo e poliziotti negli ospedali per impadronirsi dei feriti. La scuola Diaz, trasformata di colpo da dormitorio in sede di mattanza, esattamente come le prigioni in cui vengono sguinzagliati i Gom (tra parentesi, costituiti mentre era ministro Diliberto...). Domenica 22 luglio: i blindati incolonnati dei carabinieri si allontanano da Genova, tra canti fascisti e dita che fanno il segno della vittoria. I cittadini che gli sputano dietro.
Ubiquità dell'internamento. Ai cinquantamila che riempiono di nuovo le prigioni (a un anno e mezzo dall'indulto), possiamo aggiungere le migliaia di stranieri che vanno e vengono dai Cpt. Ma anche: il muro di Padova, i rom sradicati da Rutelli e Veltroni, la cacciata dei rumeni dell'autunno 2007, l'espulsione dei cinesi dal centro di Milano. I campi sono duraturi oppure elastici, intermittenti, just-in-time, esattamente come il lavoro, di cui costituiscono, in un certo senso, un'interfaccia, almeno per le categorie marginali di esseri umani. Campi di lavoro per nomadi e clandestini, sbraita la Lega da una quindicina d'anni. Sembrava una boutade da goliardi di estrema destra, e invece è una realtà che ci incombe addosso, il perfezionamento di una possibilità: tra i Cpt e il lavoro coatto, tra la marginalità e la prigione, questa sembra essere la vita dei clandestini. D'altronde, ripete l'ex sindaco di Roma, la sicurezza non è né di destra, né di sinistra, cioè è di tutt'e due.
La guerra, soprattutto dopo l'11 settembre, ha profondamente trasformato l'idea di campo. L'ha per così dire secolarizzata, metabolizzata, resa digeribile alle sensibili opinioni pubbliche occidentali, notoriamente appassionate di diritti umani. Guantanamo non è un'eccezione, ma un tipo ideale, ancora una volta il perfezionamento di una possibilità. Là si può torturare fino a un certo punto, quanto basta, nelle dovute forme giuridiche, sotto il controllo - immaginiamo - di un ufficiale medico, che magari dà il colpettino risolutore, spezza il dito giusto, esattamente come a Bolzaneto, dove sono indagati poliziotti e medici per tortura (non solo per abuso d'ufficio, tanto per capirci, caro Di Pietro, difensore della legalità). Abu Ghraib sembra piuttosto un incidente di percorso, uno strappo nella catena di comando, con quella generalessa che si è fatta un po' prendere la mano e quei sottufficiali della polizia militare che fotografavano tutto e poi, immaginiamo, avrebbero collocato le foto a colori incorniciate sul cassettone del salotto, in qualche anonima villetta unifamiliare, nel Kansas o in West Virginia.
Ma, da noi, solo le anime belle del Pd possono credere che queste brutture le facciano solo i marines. In un incredibile servizio delle Iene, sere fa, abbiamo assistito alla performance di un nostro inquisitore, militare o para-militare che fosse. Ogni tanto spunta fuori la notizia di un gruppo di carabinieri e tutori dell'ordine assortiti che dà la caccia agli stranieri, micro-delinquenti o antipatici ai nostri protettori in divisa, e poi li prende a calci, gli rompe i denti, per esempio nella Bergamasca, tra gli applausi dei cittadini. E che succederà nei teatri di peace-keeping? E chi ha collaborato al ratto di Abu Omar? E quanti altri Abu Omar ci saranno stati? Ma su ciò cala il segreto di stato, berlusconiano o prodiano che sia.
La forma-campo, al limite, non ha bisogno di campi. Oltre alle prigioni e ai Cpt, possono servire commissariati, sale riservate di aeroporti, scantinati - come in gran parte dell'Europa. I luoghi di detenzione (penale, investigativa, amministrativa, transitoria) punteggiano il nostro continente. Ma, a ben vedere, queste sono cuciture di uno spazio-campo che le fertili menti dei nostri burocrati europei vogliono trasformare nel continente più sorvegliato della terra. Europol. Frontex. Sbirri di tutta Europa, unitevi. Le marine della Nato a caccia di clandestini nel Mediterraneo e nell'Atlantico. Gli avamposti di Ceuta e Melilla. Banche dati di cui nessuno sa nulla. Al punto che persino in Germania, dove con la sicurezza non si scherza, il nostro Frattini, per il quale si vociferano prestigiosi incarichi in Italia in caso di vittoria berlusconiana, è stato accusato di minacciare le libertà civili, di schedare tutti (Verrückt nach Sicherheit, maniaco di sicurezza, così lo definisce Der Spiegel, n. 11, 10 marzo 2008). La sicurezza come utopia irrealizzabile, nel cui nome si profondono finanziamenti, si stuzzica la paranoia delle cittadinanze, si organizzano le campagne elettorali. La sicurezza non è né di destra, né di sinistra. La sicurezza è.
Finché, un bel giorno, si scopre che nel corso degli anni la politica estera, ma si dovrebbe dire la politica interna del globo, incapace di stabilizzare alcunché, di soddisfare esigenze elementari di giustizia e di decenza, concepisce la sicurezza come proliferazione di campi di proporzioni inimmaginabili. Non ci sarà mai uno stato palestinese indipendente, ma due territori-campi, Gaza e Cisgiordania, circondati dal muro, esposti a ogni attacco da terra e dal cielo. Il Libano come semi-campo. L'Iraq sarà in guerra per anni, mentre occidentali e mercenari si sollazzano nella zona verde. Kabul come campo trincerato. Accampamenti, stati-campo, flussi di guerra e internamenti a macchia. E non parliamo di tutto quello che succede altrove, dove la pigra immaginazione degli occidentali non si spinge. Sulla superficie del globo, gli spazi di internamento si allargano a macchia d'olio.
Da qualche parte, dal lato palestinese del muro costruito da Israele, un artista inglese di strada ha dipinto la silhouette di una bambina che vola via attaccata a un palloncino. Un'immagine patetica, efficace. Pare tuttavia che alcuni palestinesi non abbiano gradito. Perché l'inglese è volato via, ma loro restano. Se oggi dovessimo fotografare un essere umano per ognuna delle situazioni di internamento che punteggiano il globo, qui e là, tra noi e tra loro, in pace e in guerra, un'intera parete non basterebbe a contenere le immagini.

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